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mercoledì 12 settembre 2012

Psico-oncologia: pensieri e “cattivo sangue”

di Chiara Sicari
La focalizzazione sulla malattia tende a dominare l’attenzione del medico, che rischia di perdere di vista il paziente. Come l’influenza degli stati mentali dell’individuo sul manifestarsi e sull’evoluzione della patologia tumorale è la variante primaria...
Tratto da Scienza e Conoscenza n. 27.

Parlare di cancro è sempre un argomento difficile da trattare, dal momento che ogni volta crea aspettative che non sempre possono essere soddisfatte, e può ancora peggio, creare delle false speranze.
Per tutti questi motivi mi limiterò a fare delle considerazioni che derivano da anni di lavoro ed osservazioni su questo argomento.
Nel corso degli anni mi sono dedicata alla ricerca di qualcosa che potesse dare un significato a ciò che osservavo nel mio ambulatorio, cercando di capire perché l’evoluzione della malattia, sebbene di origine cellulare simile, evolvesse diversamente, anche se trattata con gli stessi metodi. La riflessione mi ha portato a considerare l’unica variante che riuscivo ad individuare, rappresentata dal soggetto che avevo davanti.
Da questa considerazione ho cominciato a fare una statistica sempre più capillare indagando sulle abitudini di vita, sul vissuto, mettendo sempre più in luce un aspetto importante che condizionava l’evoluzione, oltre la patogenesi della malattia: le esperienze vissute dai pazienti. In questi anni la psico-oncologia sta studiando, mettendo in risalto con sempre più importanza la relazione dello stato mentale con il manifestarsi e lo sviluppo della malattia. Per questo gli studi si sono concentrati nella ricerca delle prove delle modificazioni biologiche, in senso cancerogenetico, indotte da stati mentali.
Ronald Glaser, dell'Università dell'Ohio, per esempio, ha analizzato un certo numero di pazienti psichiatrici dividendoli in due gruppi a seconda del grado di depressione (maggiore o minore). I linfociti prelevati dai due gruppi sono stati danneggiati con radiazioni. In seguito, è stata misurata la capacità di riparazione del danno ai linfociti, che è risultata maggiore nel gruppo con depressione minore, e viceversa.
Analisi più complesse sono state realizzate, negli anni Ottanta, da L. Temoshok che, in gruppi di persone sofferenti di cancro, ha trovato minori ostacoli alla diffusione del tumore (minore presenza di linfociti nei tumori, minore resistenza dei tessuti alla limitazione della diffusione, maggiore indice di divisione cellulare) in quelle persone maggiormente represse dal punto di vista emozionale.
L. Temoshok, da questi studi, arrivò a formulare la teoria della personalità di tipo C (cancer risk personality) e cioè di quell'insieme di tratti individuali che espongono maggiormente al rischio di cancro.
P. Pancheri [trattato di medicina psicosomatica – Uses edizioni 1984] e la sua scuola hanno da tempo ipotizzato che l'inibizione emozionale, producendo una risposta non efficiente allo stress -nel senso che il soggetto in questione non è in grado di attivare e disattivare rapidamente la reazione di stress, mantenendosi invece in uno stato di iperattivazione cronica di grado moderato - sopprime o altera la risposta immunitaria lasciando così campo libero alla cancerogenesi.
Questa teoria ha trovato, nel corso degli anni, vari riscontri sperimentali anche in studi sugli animali.
Si è visto infatti che animali da laboratorio sottoposti a stress cronico e/o comunque non evitabile, a inibizione dell'azione, si ammalano di cancro più facilmente di altri.



Chiara Sicari
Laurea in medicina e chirurgia, Specialista in Medicina Generale, medico di base si occupa di oncologia da 10 anni, in particolare del metodo "Di Bella". Ricercatrice di nuovi metodi che riescano ad affrontare la patologia cercando di individuare le cause che hanno determinato la malattia, personalizzando la terapia.

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